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Festa della trebbiaturaLa trebbiatura, sul filo dei ricordi
Ogni anno, le comunità delle nostre frazioni si danno un gran da fare per organizzare manifestazioni festive le più disparate: dalle sagre alle attività culturali, dai balli in piazza alle proiezioni di film d’essai; tutto per rendere più vive le vacanze e per richiamare turisti. Al di là di questo e delle ritualità sacre, espressioni delle profonde radici nel passato della nostra terra, tante attività rurali contadine che si trasformavano poi in momenti di festa e di grande aggregazione per chi partecipava e per chi poteva assistere, sono ormai andate perdute. Ho avuto la fortuna, nella mia infanzia, di trascorrere momenti indimenticabili per tante estati consecutive, nell’attesa dell’arrivo della “trebbia”. Intorno ai primi di agosto, un lento sferragliare sull’asfalto della via Salaria ne annunciava l’arrivo. Questa grande macchina dipinta di arancione, arrivava arrancando fino in mezzo all’ara (l’aia), fra i grandi appioni (ammucchiate di covoni) dove tutti erano presenti ad accoglierla: attorno a “Lei” si metteva in movimento tutto il paese perché faceva un po’ la “preziosa”, voleva essere coccolata prima di poter svolgere al meglio la sua mansione. Infatti la puleggia, o quant’altro, avevano sempre qualcosa che non andava ma alla fine partiva ed il lavoro poteva cominciare: dall’alto dell’appione, c’era chi prendeva con il forcone nu mannocchio (un covone) per passarlo a chi col serricchio (falcetto) ne tagliava lu vanzo (spighe torte che tenevano legate quelle del covone) per buttarlo poi nella grande bocca della trebbia che lo ingurgitava voracemente; poco dopo restituiva i chicchi dorati da una parte, la paglia da un’altra e la cama (la pula) da un’altra ancora. Il grano veniva raccolto nelle coppe (contenitori in legno da 50 Kg. circa) per essere poi portato dai proprietari negli arconi (grandi madie in legno per cereali) nelle cantine. La paglia veniva ammucchiata sull’ara stessa intorno ad un’alta pertica per formare lu pajaru ed i bambini si divertivano festosi a saltarci sopra perché si pressasse bene, anche loro partecipi all’avvenimento.
Le ragazze giovani infine si caricavano sul capo i lenzuoli pieni di cama che trasportavano, con passo fiero ed elegante, fino alle rimesse perché sarebbe servita in parte a foraggio e in parte per lu jaccìu (il giaciglio) nella stalla delle vacche, insieme alla paglia. Intorno alla trebbia quindi ad ognuno il suo compito e tutti insieme, poi, a brindare con tanto vino fresco di cantina e a gustare una lauta merenda preparata dalle donne; nella canestra e nella mandrecchiata (fagotto fatto con i grandi fazzoletti della spesa a quadrettoni bianchi e blu) ogni ben di Dio: fragranti filoni, salamini, uova sode, formaggiette di buon pecorino, ciambelloni giganteschi e poi… l'organetto che con il suo contagioso e irresistibile ritmo portava tutti a concludere, in una bella festa fra mazurche e saltarelle, l'impegnativo lavoro della trebbiatura. Tutto ciò è ormai un ricordo pieno di nostalgia, riportato alla memoria chiacchierando piacevolmente con Marietta Giamogante Scalla, che mi ha aiutato a ricordare i termini dialettali qui sopra riportati; mi ha raccontato anche che il motore della prima trebbia andava a legna o a carbone e che l'inizio del lavoro era annunciato da un lungo fischio o dal suono di una sirena. Mi ha detto poi che, in tempo di guerra, un ufficiale dell'esercito, in base al raccolto di ogni famiglia, requisiva una percentuale del cereale che andava all'ammasso per lo Stato. Mio padre dice che un contadino di un'altra frazione, quando per la prima volta vide in funzione la trebbiatrice, riportò che a Santa Croce c'era lu diaulu che separava, tutto in una volta, lo rano dalla cama e dalla paglia! Prima degli anni venti, infatti, nelle nostre parti la trebbiatura detta “la trita” era eseguita “co lu flacju” o con l'aiuto delle bestie, ma questo procedimento merita un articolo a parte. La scena pittoresca e movimentata del trebbiare mi torna alla mente un po' evanescente, come offuscata perché immersa nel gran nugolo di polvere che si sollevava dalla macchina, tanto che molti riparavano il naso e la bocca con un fazzoletto piegato a triangolo, legato dietro la nuca. Ricordo quanto a malincuore, proprio per questo motivo, mi facessero allontanare per poter tornare all'ara solo quando ormai tutto era finito ma si potevano ancora raccogliere tanti chicchi di grano sparsi che, masticati a lungo diventavano una sorta di biologica e salutare gomma americana! Tratto dalla Rivista Falacrina n. 2 agosto 2005
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